Anita
by Arianna Calandra
I guanti in nitrile non le permettevano di accarezzare le piante come avrebbe voluto, ma le foglie erano verdi e in salute, per Anita era sufficiente. Le telecamere della serra spiavano ogni mossa di Anita e dei colleghi, sapevano che era solo questione di tempo prima che i robot li rimpiazzassero e poi anche gli agro-ingegneri sarebbero stati confinati in casa.
Anita era tra i pochi ancora autorizzati a uscire, dal momento che la tecnologia non era in grado di sostituire le sue competenze. Non ancora. Lavorava tutti i giorni nella grande serra hi-tec di Tor di Quinto, una delle quattro disseminate nell’urbe e divenute fondamentali dopo il blocco dei commerci con l’esterno, quasi tre anni prima.
I colleghi lavoravano silenziosi e a testa china. Nessuno era autorizzato a parlare se non per questioni impellenti e a dir la verità, chiusi nelle tute di polipropilene, con la faccia nascosta da maschera e respiratore, ogni slancio di conversazione si esauriva presto.
Un collega le passò le lampadine di ricambio e nei suoi occhi infossati, Anita vide lo specchio dei suoi. Il silenzio nella serra, ottuso dalla ventilazione costante, era un perfetto tappeto su cui far navigare i ricordi. Ripensò al suo progetto di ricerca e a quando con un sorriso sicuro aveva mostrato ai tecnici dell’ESA il nuovo sistema d’illuminazione.
«Saremo in grado di coltivare nello spazio» aveva detto, trionfante. «Persino sulla Luna o su Marte. Il led-obbiettivo consente una coltivazione di precisione, in grado di fornire alla pianta l’esatta lunghezza d’onda, invece dell’intero spettro solare». Il direttore le aveva stretto la mano e da quel momento era iniziato il caos. Il progetto era tracollato assieme al paese, mentre le nuove tecnologie anziché servire l’esplorazione spaziale, erano state riciclate per sfamare Roma.
Da sotto la tuta il corpo grondava sudore, le gocce le colavano davanti agli occhi e non poteva far nulla per scacciarle. Il led lampeggiante di rosso si azionò, decretando il fine turno.
Ordinati in fila indiana passarono attraverso il nebulizzatore igienizzante, poi come prigionieri al patibolo, salirono sulla navetta elettrica e auto-comandata. Il percorso era ogni giorno lo stesso, l’utilizzo di veicoli privati era stato bandito, anche se Anita avrebbe giurato di sentir rombare dei motori in una delle sue traversate casa-lavoro.
La processione di navette sfilò sull’asfalto di Roma, i finestrini claustrofobici e schermati lasciavano intravedere solo uno sprazzo di cielo e la sommità dei palazzi. Le sembrò di sentir abbaiare un cane, probabilmente abbandonato, tra non molto i droni avrebbero messo fine alle sue pene.
La navetta la scaricò davanti al palazzo, i droni ronzavano ovunque e la sola possibilità era quella di mettere un piede davanti l’altro ed entrare nella palazzina. Sul pianerottolo si spogliò, poi ripose la tuta nella teca di plastica nera; il sottovuoto si azionava automaticamente e tanto bastava a uccidere il virus. Peccato che gli umani non potessero vivere al buio e senza ossigeno.
In casa aleggiava odore di vernice, a coprire quello terroso delle sue piante.
«Allora, che te ne pare?»
Susy si era lanciata in un’altra delle sue follie, i pensili della cucina dovevano diventare verdi e così era stato. Gli schizzi di vernice arrivavano ovunque, persino sui suoi capelli biondi, ma lei sembrava felice da quel suo viso rotondo e sempre ottimista, così Anita si limitò a stamparle un bacio sulle labbra. «Mi piace. Lo sai che amo il verde».
Susy ridacchiò, aveva investito gli ultimi soldi della carta Stayathome per comprare vernici e pennelli. Aveva bisogno di uno scopo, era comprensibile.
«Come è andata al lavoro?» Le urlò dal bagno, mentre si spogliava per la doccia.
«Solita rottura di palle. Ma almeno le mie melanzane farebbero impallidire la Monsanto». Accese una sigaretta artigianale mentre infilava pezzi di mela nella teca con Jack e Rose, i suoi due cervi volanti. Susy li aveva adorati sin dall’inizio, trovava estremamente eleganti le loro corna punzonate.
Dalla soglia del bagno si fermò a osservare le forme di Susy che entrava in doccia. Era più rotonda da quando era iniziata la quarantena, morbida e femminile come lei non sarebbe mai stata, alta e nodosa com’era. Probabilmente era per questo che le piaceva toccare Susy, non che gli uomini le dispiacessero, ma fino ad ora nessuno era stato in grado di eguagliarla.
Si erano conosciute quattro anni prima in un negozio di animali, Susy faceva la cassiera e Anita era lì per comprare insalata secca a Jack e Rose. All’epoca Susy aveva ventidue anni, dieci in meno di lei.
Lasciò arieggiare la casa, per evitare che i vapori della vernice infastidissero le piante, poi uscì in terrazzo, la sua giungla.
Da quando le era stato vietato di uscire, una parte di Anita si era spezzata. I boschi, i campi …
Qualche volta Susy l’aveva accompagnata nelle sue esplorazioni, ma in generale preferiva andare sola. Sapeva che avrebbe storto il naso vedendola dormire per terra, contro l’erba pruriginosa e il terreno pieno di insetti. Adesso era rimasto solo il lavoro a tenerla in piedi e proprio non concepiva come Susy potesse resistere tutto il giorno dentro casa.
Varcò l’entrata della piccola serra, a dare una controllata alle sue piantine di Marijuana, «Per i periodi bui» aveva detto a Susy e di fatto se ne rollava una ogni giorno. Il tabacco e la canapa per le cartine crescevano rigogliosi nei cassettoni in terrazzo.
Si appoggiò al parapetto, una distesa di monotoni comprensori accolse i suoi occhi. Distrattamente si tolse la terra da sotto le unghie, mentre Jessica, l’intelligenza artificiale della casa, raccomandava di non passare troppo tempo fuori e di far arieggiare per un massimo di sessanta minuti.
Anita aveva fantasticato più volte sulla possibilità di tirarla giù dal quarto piano, ma chi aveva voglia di ritrovarsi la casa invasa da droni sentinelle? Oltretutto le persone erano tanto frustrate che puntare il dito contro i vicini era diventata una sorta di terapia, e chiunque poteva facilmente trasformarsi da onesto cittadino a reietto sovversivo. Anita li vedeva dai palazzi accanto, sbirciare da dietro le tende come cani rabbiosi, la bava alla bocca per la prossima vittima sacrificale.
“Il governo è con voi, non dovete preoccuparvi”. La nenia si ripeteva dagli altoparlanti a intervalli regolari, generando solamente più terrore.
Un drone si avvicinò al suo balcone e Anita dovette gettare in fretta la sigaretta. Il robot si fermò ronzandole davanti, dagli schermi piccoli e neri come gli occhi di una mosca, sapeva di essere osservata da qualcuno che non aveva nome e “che si occupava di loro”.
Il drone lasciò cadere un contenitore di polistirolo che rotolò sul pavimento. Susy doveva aver ordinato qualcosa.
«Grazie dell’ottimo servizio» borbottò, mentre il robot volava lontano. «Cazzo di droni». Si accese un’altra sigaretta.
Neanche voleva vederne il contenuto, probabilmente qualche schifezza alla Susy, non che verdura e frutta fossero tanto meglio. Le piante su cui lavorava erano spinte a produrre di più e in maggior qualità, bombardate alle radici da soluzioni nutritive, secondo il sistema aeroponico.
In pratica cibo sintetico. Gli OGM a confronto erano un bagno di salute. Quali fossero gli effetti a lungo termine di una simile alimentazione, non era dato sapere.
«Anita! Mio Dio, corri!»
Richiamata da Susy scattò verso il bagno. La trovò con le mani nei capelli, le mattonelle si stavano gonfiando e il tubo al di sotto doveva essersi rotto, tanto che l’acqua era risalita fin sul piattello della doccia, riversandosi sul pavimento.
«Merda!» La sigaretta le cadde dalle labbra spegnendosi nella pozza. Il muro era impregnato e l’alone scendeva fin giù.
«Oddio, dove arriverà la perdita?» Urlò Susy, tentando di arginare il danno con un asciugamano.
«Aspetta qui» le intimò Anita. Uscì di casa e scese le scale di un piano, fermandosi davanti alla porta del vicino che abitava sotto di lei. Lo conosceva di sfuggita, più per le conversazioni telefoniche urlate e la musica che sparava a cannone. Anita era in mutande, coperta solo da una maglietta extra large fino alle ginocchia, i capelli castani arrotolati attorno a un elastico piantato lì da giorni, solo un dread usciva fuori ribelle, tuttavia non ci badò e con foga bussò alla porta.