Miriam
by Sahara Rossi
L’alba giunse indiscreta tra le persiane scure della sua finestra, illuminando d’una luce rada la piccola camera da letto. Miriam aprì debolmente gli occhi, sbadigliando. S’era assopita per qualche ora, la cartolina lucida ancora stretta al seno, leggermente piegata agli angoli dal suo continuo rigirarsi tra le lenzuola durante il sonno. Aveva fatto sogni inquieti e confusi; suo padre le era apparso davanti, il volto celato dall’ombra notturna e la voce cupa. Doveva dirle qualcosa, le aveva confessato, poi una pozza d’acqua nera scintillante, proprio al centro della stanza, lo aveva risucchiato, e lui, scandendo flebilmente le ultime parole – d e v o d i r t i u n a c o s a – era svanito.
Si alzò stiracchiando le braccia e la schiena ed andò in cucina, dove trovò Maia seduta a capotavola che meditabonda rimestava nella sua tazza i cereali. «Mangia, o diventeranno tutti molli», le aveva detto la madre, poco distante da lei, mentre, con gli occhiali da vista dalla montatura bordeaux ben calcati sul naso adunco, risolveva un cruciverba. «Non mi piacciono», controbatté la bambina, posando il cucchiaio sporco di latte. «Voglio i Kellogg’s, mamma. Voglio i Kellogg’s. E’ da tanto che non compri i Kellogg’s». La donna alzò lo sguardo verso di lei. «Sai bene che non possiamo permetterci altro». «Sì, ma io voglio i Kellogg’s», continuò Maia, con quella sua vocetta cantilenante.
«E invece mangi questi cosi schifosi sottomarca che sanno di cartone portati dallo spazio», intervenne Miriam, entrando in cucina. La madre le rivolse un sorriso debolmente accennato, poi tornò ai suoi cruciverba. Si preparò la moka e mise sul fuoco un’abbondante porzione di caffè, poi arruffò la testolina bionda della sorella e le stampò un bacio assonnato sulla fronte. «Guarda che lo so che il cibo non viene dallo spazio», le fece di rimando Maia, che ormai aveva definitivamente abbandonato la sua colazione insipida. «Sono i dromi che ci portano da mangiare». Miriam rise, addentando una mela. «Droni, amore. Si chiamano droni». «Beh, comunque a me non mi piacciono», sentenziò Maia. «Mi fanno paura e fanno un gran rumore. Soprattutto quando volano la notte».
Il caffè venne su gorgogliando. Miriam se ne versò un’abbondante tazza e bevve piano. «Ieri non hai lavato i piatti, come ti avevo chiesto», le disse sua madre, guardandola per la prima volta da quando aveva messo piede nella cucina luminosa. «Me ne sono dimenticata». «Sempre la stessa storia», la rimproverò. «Hai sempre di meglio da fare tu. Nonostante siamo chiusi in questa casa da tre anni, non mi ascolti mai, non aiuti mai, nemmeno quando ti viene chiesto di farlo». «Hai finito?», rispose sfrontata la ragazza, posando bruscamente sul lavello la sua tazza ancora fumante. «Ti ho detto che mi sono dimenticata, più tardi lo farò». La madre si alzò, fronteggiandola con lo sguardo. «Bada a moderare i toni. Sei diventata proprio una grande stronza».
«Perché invece non ti fai un esame di coscienza?».
Non fece nemmeno in tempo a terminare la frase, che la donna, il volto stanco segnato dalle rughe del tempo e da una profonda tristezza, le assestò uno schiaffo in piena guancia. Si fissarono per qualche istante. Lei con l’espressione vitrea, forse mortificata. Miriam, scossa, incredula per quel gesto. Sostenne, in un moto di fierezza infantile, lo sguardo della madre per qualche minuto ancora, poi le disse, con voce tagliente e provocatoria «: Non mi interessa se non ci è permesso uscire. Preferirei farmi arrestare piuttosto che passare tutta la mia vita qui dentro con te». E tornò in camera sua.
Rimase per molto tempo distesa sul letto a pensare, gli occhi puntati sul soffitto tinteggiato di blu, dove suo padre, quando era bambina, aveva attaccato delle stelle brillanti, che si illuminavano fiocamente quando veniva spenta la luce. L’orologio sul comodino segnava le dieci e venti del mattino. L’aria era densa e calda, satura del sudore e degli odori della notte. Nel silenzio di quell’umido giorno, scandito solo dal regolare ticchettìo delle lancette, un rumore secco le giunse alle orecchie. Qualcosa aveva colpito il vetro della finestra. Una. Due. Tre volte. Quando si affacciò, qualcuno, dal piano superiore, le aveva calato un biglietto con un cordone di spago, nel quale v’era scritto: «in terrazzo tra dieci minuti». Presa da una febbrile eccitazione Miriam, con le mani tremanti, lasciò cadere a terra il foglio spiegazzato. Si lavò e si vestì in tutta fretta, si spazzolò veloce i capelli crespi, e si infilò il giubbotto verde bottiglia di suo padre, che le andava decisamente largo. Sull’uscio della porta sentì sua madre gridare : «Dove stai andando?». «A ritirare i panni in terrazzo», ed uscì, facendo attenzione a non incrociare nessuno sulle scale. Quando raggiunse l’ultimo piano, una luce bianca ed accecante l’avvolse. La città era quieta e silenziosa, ed il cielo lattiginoso solcato qua e là da qualche fastidioso drone di controllo. Sentì delle mani afferrarle la vita, un corpo caldo attirarla a sé; si voltò di scatto e trovò le labbra ruvide di Ismael contro le sue. «Sei pazzo!», esclamò lei, allontanandolo. «Potrebbero vederci». Lui le rivolse un sorriso furbo, e, afferrandola dolcemente per il polso, la condusse dietro un muretto scalcinato, al riparo dagli occhi indiscreti dei condomini dei vari palazzi, in mezzo alle lenzuola stese. «Ora posso baciarti?». Miriam lo lasciò fare e lui la sollevò in alto, tenendola stretta all’altezza dello stomaco. Il bucato attorno a loro ondeggiava fresco alle folate del vento. Quando si staccarono, Ismael aveva gli occhi ardenti di desiderio, occhi bellissimi, lucidi come due olive nere. Lo osservò bene e provò per lui una profonda tenerezza. Si conoscevano da quando erano bambini, avevano condiviso i palloni, i marciapiedi e le ginocchia sbucciate diverse volte; lui le aveva insegnato ad andare in bicicletta e lei, quando erano più grandi, a giocare a softair. Ismael aveva la pelle bronzea, i capelli scuri ed una dentatura bianca come le lenzuola umide di lavatrice che serpeggiavano attorno a loro. Era nato a Roma, ma i suoi genitori, assieme ad un anziano zio, si erano trasferiti in Italia da San Miguel de Tucumán, in Argentina. Lo zio era stato il primo a soccombere, quando il virus aveva preso sempre più forza. Suo padre si era ammalato e poi era miracolosamente guarito, ed Ismael le diceva sempre che sarebbe successo anche al suo, che non aveva nulla da temere. Poi aveva trascorso la notte con lei in terrazza, avvolti in una vecchia coperta di pile a fissare la luna, e Miriam piangeva, e diceva che si sarebbe buttata di sotto quando Ismael avesse preso sonno e non l’avesse più vigilata, così avrebbe raggiunto il suo, di papà, che si era spento da poche ore e che non aveva potuto vedere un’ultima volta. Ismael però, per evitare la tragedia, era rimasto sveglio per tutta la notte, ed anche per quella successiva, fino a che, dopo circa quattro giorni, sempre stretti nel grinzoso plaid marrone, lei gli aveva detto che, terminata la quarantena, se mai ci sarebbe davvero stata una fine, lo avrebbe sposato. «Giurami che mi porterai in Argentina con te e che ci sposeremo». Lui glielo aveva promesso. Ed ora era lì, docile e vivace nei suoi ventiquattro anni, che le accarezzava il viso su quel terrazzo al riparo dagli occhi curiosi dei vicini. «Ieri ho scoperto una cosa», disse Miriam, fissandolo greve.
Pescò dalle tasche larghe del giubbotto la cartolina e gliela porse. «Era nel cassetto di papà. Vedi? Questa è la sua scrittura». Ismael la rigirò nel palmo delle mani più e più volte, come se volesse studiarla attentamente. «Ce l’abbiamo quasi fatta», lesse a bassa voce.
«Che vuol dire?». “Non lo so», Miriam fece spallucce. «Mi sembra tutto così strano. Eppure sento che è tutto collegato».
«A cosa?»
«A ciò che mio padre doveva dirmi poco prima di …», si interruppe, mordendosi il labbro. Ismael le si fece vicino e le baciò lievemente la fronte. «Hai provato a chiedere a tua madre?».
«Io non parlo con lei. Da quando papà è morto è diventata impossibile. Si comporta come se non fosse mai esistito».
«Magari è un dolore troppo grande, e questo è il suo modo di tutelarsi», le rispose il ragazzo. «Tu hai perso un padre. Ma d’altronde lei ha perso suo marito». Miriam storse la bocca. «Oh Isma, ti prego. Non metterti a fare lo psicologo con me. Non è questo di cui ho bisogno ora».
«E di cosa hai bisogno?».
«Che tu mi aiuti a scoprire cosa diamine sta succedendo».
Si sorrisero, ed Ismael annuì, prendendole la mano e baciandole le nocche. «Ci conviene tornare, prima che qualcuno possa insospettirsi».
«Quando potrò rivederti?».
«Tra due giorni verso mezzanotte ti manderò il segnale».
Ismael uscì per primo, e richiuse la porta dietro di sé. Miriam lo seguì qualche minuto dopo, ma, nel rientrare nel buio del palazzo, ancora accecata dalla forte luce dell’esterno, si scontrò contro la schiena del giovane, il qualche non si era mosso d’un centimetro. «Che succede?», gli domandò confusa. Ismael, accanto al corrimano delle scale, fissava come pietrificato il fondo dell’edificio, dove si trovavano altri condomini, usciti dai loro appartamenti, a loro volta affacciati. «Merda», disse.
«E’ saltata la corrente».