Miriam
by Sahara Rossi
Quando successe, attorno alle dieci d’un’anonima ed umida serata di inizio marzo, sua madre non telefonò a nessuno. Sorrise stancamente, accarezzò la guancia fresca di sua sorella e la aiutò a lavare la biancheria. «Ora sei una donna anche tu», si limitò a dire. Maia rimase immobile a fissare la sua immagine smunta davanti allo specchio sporco del bagno, la luce giallognola che modellava le sue forme ossute. Aveva undici anni, ed era alta un metro e trentacinque; i capelli biondo cenere, che le ricadevano sulle spalle ricurve come liane, erano lisci e privi di riflessi. Eppure c’era qualcosa nel suo sguardo acquoso ed in quei grandi occhi celesti che Miriam aveva da sempre invidiato. Trasmettevano un senso di dolcezza e serenità, nonostante, da tanto tempo ormai, essi fossero costantemente oscurati da un velo di spessa tristezza. «Cosa mi succederà ora?», domandò la piccola, raggomitolandosi in sé stessa. La madre si alzò e le porse un cambio, profumato di bucato. «Assolutamente nulla», tagliò corto. «Te lo spiegherò meglio domani». «Ma non capisco», piagnucolò l’altra, col labbro che tremava. «Mi è uscito del sangue … sto … sto morendo?». «Smettila con queste sciocchezze». «Stavo sanguinando!», insistette Maia, cominciando a piangere. «E se dovesse succedermi qualcosa … come a papà?». La donna si irrigidì. Abbassò il capo e si fissò le ciabattine logore senza realmente vederle. Poi il suo sguardo si inchiodò a quello della figlia. «Non dirlo mai più. Ti prego, mai più». Maia annuì, tirando su col naso. Si infilò le mutandine verdognole ed il nuovo pigiama, stampò sulla fronte della madre, la quale si chinò per riceverlo, un bacio umido, ed andò a dormire. Miriam sentì i suoi passi felpati scivolare verso l’oscurità della sua cameretta stracolma di giocattoli logori e pupazzi polverosi.
Qualche colpo di tosse, rumore di acqua corrente, una porta che sbatte. Silenzio. Trattenne il respiro per ascoltare il rumore del suo cuore. Uno. Due. Tre.
Quando ebbe il suo primo ciclo mestruale, sua madre telefonò alla zia Carla, ai nonni, alle colleghe, alle vecchie cugine. La frase di rito era la sempre la stessa : «E’ diventata una donna», ma l’entusiasmo e la vivacità negli occhi di sua madre erano nettamente diversi. Era così bella, tempo fa. Quando Miriam aveva dodici anni, e suo padre la accompagnava a scuola tutte le mattine, ed assieme percorrevano il largo viale alberato fino al semaforo, e c’era sempre il sole, in primavera, ed il fioraio della via, quando li vedeva passare, le regalava sempre una margherita gialla. Sua madre portava spesso il rossetto ed una camicetta candida, e nel tempo libero era solita prendersi cura delle piante del terrazzo e sfornare crostate. Quando, a dodici anni, Miriam ebbe il suo primo ciclo mestruale, corse a dirlo alla sua migliore amica, Isabel, che era cilena, la quale le confessò a sua volta di aver dato un bacio nel bagno delle femmine ad un ragazzo della classe accanto, il quale poi l’aveva invitata a casa sua, quello stesso pomeriggio. Quattro. Cinque. Sei. Sua madre bussò. «Dormi?». .
«Non ancora».
Aprì leggermente la porta; uno spicchio di luce si riversò nella stanza buia.
«Tua sorella …».
«Ho sentito, sì».
«E’ molto spaventata».
«Le passerà».
La donna sospirò. «Potresti lavare i piatti, per favore? Sono molto stanca, e credo che andrò a letto».
Senza rispondere, Miriam si alzò, ma, anziché dirigersi in cucina, deviò per il soggiorno. Si sedette sul pavimento freddo con le gambe incrociate, e rimase immobile a pensare. Prima che tutto iniziasse, suo padre guardava spesso la televisione, proprio in quel punto laggiù, sul divano che aveva ancora gli stessi cuscini dalle federe sbiadite e le macchie di un caffè rovesciato per sbaglio. Assorto, rimaneva per qualche ora a seguire noiosi notiziari e partite di calcio, e quando Miriam veniva da lui, poco prima di andare a dormire, lui spengeva lo schermo, la faceva salire sulle gambe robuste e le chiedeva : «Che storia ti racconto questa sera?». E lei voleva sempre la stessa, quella che parlava di mondi lontani abitati da principesse e guerrieri coraggiosi e creature fatate. Si avvicinò mesta al mobile in mogano scuro ed aprì l’ultimo cassetto, il quale era chiuso a chiave. Sua madre si era rifiutata di aprirlo dall’ultima volta, e così tutto era rimasto perfettamente dove era. Non seppe perché desiderò così tanto frugare tra quei ricordi amari, in quel passato ancora troppo vivido e pungente per essere messo a tacere. Il cassetto aperto le rimandò un remoto odore di tabacco e vernice. Dentro, mille carte, fatture e fotocopie dai numeri scoloriti, un libro di Jean Paul Sartre, una scatola di sigarette ormai vuota, un vecchio orologio quadrato dal cinturino di cuoio, sfibrato dal tempo, una mappa stradale. Guardò curiosa, come se lo li avesse mai visti, tutti quegli oggetti che conosceva alla perfezione. Gli occhiali da vista che suo padre utilizzava per leggere, che rendevano il suo naso ancora più adunco, o le edizioni tascabili dei poeti francesi che comprava alle bancarelle, nelle piazze dei mercati estivi. Frugando, vagando negli spazi angusti della memoria, ecco che si soffermò su una cartolina, rimasta incastrata nel fondo del cassetto. Raffigurava un borgo marittimo al tramonto. Le luci aranciate del porto, dove erano ormeggiate alcune barche bianche, si specchiavano tremolanti nelle acque cristalline. Una scritta in corsivo, decisamente kitsch e cosparsa di brillantini rossi riportava la dicitura “Porto Venere”. Sul retro, Miriam riconobbe la scrittura obliqua di suo padre.
“20 agosto 1999 – ce l’abbiamo quasi fatta”.
Confusa, rigirò nelle mani la cartolina più e più volte, cercando di dare un senso a quella frase. Nel
1999 Miriam aveva due anni, eppure non ricordava assolutamente nulla di una gita fatta in Liguria.
Non c’erano nemmeno delle fotografie di quella vacanza, cosa abbastanza insolita dato che era
abitudine della sua famiglia conservare tutte le immagini dei viaggi fatti negli innumerevoli album che
ancora occupavano le mensole alte delle librerie. Dal corridoio una luce si accese. Avvertì dei passi
pesanti e concitati, tipici di sua madre. Con fare lesto, Miriam richiuse il cassetto, nascose la cartolina
sotto la maglia larga del suo pigiama, e, senza far rumore, si avviò svelta verso la sua camera da letto,
dove rimase sveglia, per quasi tutta la notte.